Le carte di questo mazzo mettono in luce, e a confronto, l’emissione di CO2 che viene prodotta durante determinate attività legate al mondo del cibo e dell'alimentazione.
La globalizzazione e la distribuzione di massa di frutta e verdura a livello mondiale ci permettono di provare una gran varietà di prodotti in ogni momento dell'anno. Consumare più frutta e verdura di stagione è diventato un messaggio sempre più diffuso per migliorare la sostenibilità della nostra alimentazione. Tuttavia, è difficile dire cosa sia davvero "di stagione": dobbiamo capirne il vero significato e dedicarci all'impatto ambientale della frutta e della verdura che consumiamo.
I benefici per l'ambiente della frutta e della verdura di stagione vengono spesso attribuiti alle minori distanze percorse. Sebbene il tipo di trasporto possa essere importante per alcuni prodotti ortofrutticoli, come quelli trasportati per via aerea (es. bacche, frutta tropicale e fagiolini), il contributo del trasporto all'impronta di carbonio è generalmente inferiore alle emissioni derivanti dai metodi di produzione.1 Se le serre a clima controllato possono comportare un minor utilizzo di terreno, meno spreco di cibo, meno pesticidi e alti rendimenti, la quantità di energia necessaria per riscaldare questi edifici è notevole. Tanto è vero che anche la stagionalità globale può essere una scelta rispettosa dell’ambiente.
Fonte: www.eufic.org
Quando i pomodori vengono coltivati localmente ma non durante la loro stagione in serre riscaldate, hanno impronte di carbonio maggiori rispetto a quelli coltivati durante la loro stagione naturale all'aria aperta in Spagna e poi trasportati, ad esempio, nel Regno Unito. L'impronta di carbonio dei pomodori stagionali in Spagna è minore poiché le serre richiedono molta energia e per questo emettono GHG. Le emissioni tendono ad essere maggiori di quelle emesse dal trasporto dalla Spagna al Regno Unito.
Il quadro generale che emerge dalla ricerca è che la frutta e la verdura con le emissioni di gas serra più basse sono quelle coltivate all'aperto durante la loro stagione naturale senza un uso eccessivo di energia e consumate nello stesso paese o regione. Queste apportano benefici all'ambiente perché utilizzano meno energia per riscaldamento o illuminazione artificiale, per la refrigerazione e la conservazione e per evitare perdite durante la conservazione, il che di solito aiuta a produrre meno emissioni di GHG, rispetto a frutta e verdura coltivate sotto protezione, importate o conservate
Fonte: www.eufic.org
Il modo in cui alcune risaie vengono irrigate e gestite in tutto il mondo, con cicli di inondazioni seguiti da periodi di siccità, può produrre il doppio dell'inquinamento da gas serra rispetto a quanto stimato finora, pari a quello di 200 centrali a carbone. Considerato anche che il riso è alla base dell'alimentazione di 3,5 miliardi di persone, la sua coltivazione ha effetti significativi sul clima e sul riscaldamento globale.
Il riso è una fonte di nutrimento cruciale per la popolazione in rapida crescita e fornisce più calorie rispetto a qualsiasi altro cibo. Ma la coltivazione si traduce in un uso intensivo delle risorse: copre infatti l’11% della terra arabile della terra e consuma un terzo delle acque di irrigazione.
Numeri alla mano, le emissioni di metano e protossido di azoto (o ossido di diazoto) dalle risaie potrebbero avere lo stesso impatto a lungo termine sul riscaldamento di circa 600 centrali a carbone.
Fonte: www.greenme.it
C’è chi lo fa tutti i giorni e chi lo fa una volta ogni tanto, eppure a tutti è capitato di bere del té o delle tisane che generalmente sono venduti in bustine.
Queste bustine sono composti da materiali termoplastici non biodegradabili. Questi materiali, oltre a non essere ottimali per la salute per via dei residui rilasciati, non sono smaltibili nell’organico, contrariamente a quanto taluni erroneamente ritengano. E non sono neanche riciclabili, andrebbero smaltite dunque nel secco.
Alcune marche, inoltre, vendono il té in eleganti bustine di nylon che sono ancora più dannose per l’ambiente.
Per non parlare invece delle cialde del caffè, altamente inquinanti.
L’alternativa più semplice è quella di acquistarlo sfuso e utilizzare i filtri in metallo acquistabili pressocché ovunque. Dalle erboristerie ai supermercati: è semplicissimo trovare té e tisane e caffè per ogni gusto ed esigenza, con una vastissima scala di scelte per qualsiasi tipo di richiesta. Spesso costano anche meno e sono generalmente migliori per la salute in quanto è facile trovarne di biologiche e non industriali.
Fonte: progettoimpattozero.org
Se gli americani rinunciassero ad uno dei tre hamburger di carne che, in media, mangiano ogni settimana si potrebbero eliminare le emissioni di gas serra corrispondenti a 12 milioni di auto circolanti per un anno
Produrre un hamburger a base esclusivamente vegetale ha richiesto ai ricercatori tra 75 e 99% in meno di acqua, circa il 95% in meno di terreno arabile e ha generato il 90% di emissioni di gas serra in meno di un hamburger di carne.
«Uno dei modi più distruttivi di lasciare la nostra impronta sul pianeta – sostiene James Lomax, responsabile del programma Sistemi alimentari sostenibili e agricoltura delle Nazioni Unite – è produrre carne da allevamenti intensivi. I dati indicano che se le mucche fossero una nazione sarebbero il terzo più importante emettitore di gas serra al mondo e che per produrre un hamburger di 150 grammi, sono necessari più di 1.600 litri d’acqua».
Fonte: www.italiaatavola.net
L'ARPA (Agenzia Regionale Protezione Ambientale) ha infatti cominciato una ricerca secondo cui sarebbero i macchinari che vanno a legna e, soprattutto, a pellet a inquinare maggiormente. Per un totale del 44% contro il 21 dei tubi di scappamento delle vetture.
Ovviamente questo non significa che i forni delle pizzerie o quelli dei ristoranti rappresentino la totalità di questo dato impressionante.
E uno dei problemi dei forni a legna nelle pizzerie non è semplicemente che venga usato quello specifico materiale per la cottura. Come molte cose in Italia, il problema è che anche quel tipo di forni, così antichi, così caratteristici, spesso non sono a norma.
Se aggiungiamo gli ingredienti e gli spostamenti del delivery ci rendiamo conto che anche la Pizza ha un ruolo da protagonista nel definire l’inquinamento delle nostre città.
Fonte: www.vice.com
Nel 2021 gli italiani hanno ancora aumentato il consumo dei prodotti surgelati, proprio in questo periodo di caro energia e crisi ambientale, risulta una notizia negativa e che peggiora il momento di carobollette.
La catena del freddo infatti ci permette di consumare prodotti di origini remote e fuori stagioni, ma ad un costo ambientale e in bolletta che non può essere ignorato. A maggior ragione in un momento in cui vengono imposti riduzioni di consumi energetici e si prospettano ancora difficoltà energetiche nel prossimo futuro.|
Il problema della catena del freddo è l’inquinamento. Per ogni 30 kg di prodotti surgelati si possono calcolare 390 kg di anidride carbonica secondo l’IIST per l’intero processo di produzione, trasporto, refrigeramento e stockaggio. Si può facilmente quindi calcolare come rispetto allo scorso anno sono state emesse 650 mila tonnellate di CO2 solo per la catena del freddo.
Fonte: www.prontobolletta.it
Rendere gli acolici sostenibili rappresenta una sfida. Per produrre mezza pinta di birra sono necessari 75 l di acqua, mentre per un calice di vino ne servono 113. Molti alcolici vengono, poi, prodotti solo in determinate parti del mondo e il loro trasporto, che spesso avviene in celle refrigerate, ha sull’ambiente un impatto drammatico. Il packaging non è da meno, e il bilancio viene aggravato dall’energia necessaria alla conservazione. I problemi si palesano, comunque, già all’inizio della filiera. Uva, luppolo e cereali, ingredienti alla base di molti dei prodotti del settore, sono fra le colture a più ampio consumo di acqua ed energia.
Fonte: www.innaturale.com
Qualsiasi latte vegetale comporta un impatto ambientale molto minore del latte animale, per la sua produzione, visto che per nutrire gli animali "da latte" è necessario coltivare una quantità di cereali e leguminose estremamente più elevata rispetto a quella necessaria per produrre il latte vegetale.
Ma se confrontiamo i latti vegetali tra loro, chi "vince"? In un articolo pubblicato a gennaio 2020 su The Guardian è stata stilata la classifica dei latti vegetali più ecologisti (basata su articoli scientifici e interviste con esperti) e sono risultati al primo posto il latte d'avena e quello di soia, perché richiedono meno risorse per la coltivazione, rispetto al latte di riso, di mandorle e di altri cereali o frutta secca.
Fonte: www.accademianutrizione.it
La patata è una coltura virtuosa in termini di sostenibilità ambientale: basso consumo di suolo per calorie prodotte, limitato utilizzo delle risorse idriche, ridotto impatto ambientale in termini di CO2 immessa nell'atmosfera.
Si conserva a lungo e la sua grande versatilità in cucina riduce la possibilità di spreco a livello domestico. Persino i suoi scarti, ossia le bucce, possono trovare impiego in cucina, nel giardinaggio e per la produzione di energia da biomasse.
Fonte: www.argenpapa.com
Negli ultimi decenni la coltivazione intensiva delle mele ha influito notevolmente sull’economia, sull’ambiente e sulla qualità della vita dell’Alto Adige. Nel 2008, nel “frutteto più grande d’Euopa”, si è arrivati ad una produzione di mele di oltre 1.000.000 di tonnellate! La produzione di alimenti non è però l’unica funzione dell’agricoltura, che dovrebbe invece contribuire anche alla salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio e tutelare la salute dei consumatori.
Nella qualità del prodotto andrebbe però considerata anche la componente “ecologica” delle modalità di produzione (aspetti dell’impato sull’ambiente, sulla fauna selvatica e sul paesaggio), e la componente etica (riferita alla visione etica delle modalità di produzione). Andrebbero valutati in modo approfondito i costi energetici della produzione agricola e gli aspetti generali dell’impatto sulla salute dei consumatori.
Fonte: www.ruralpini.it
I ricercatori dell’università britannica di Sheffield hanno analizzato l’impatto ambientale della produzione del pane nelle sue varie fasi, dalla coltivazione del grano alla distribuzione. Pubblicato su Nature Plants, lo studio ci dice che una pagnotta di pane genera co2, ed è soprattutto la coltivazione a generare circa la metà dei gas climalteranti. In particolare, il nitrato d’ammonio, usato come fertilizzante, causa del 43% delle emissioni.
Il dr. Liam Goucher, tra gli autori dello studio dice che: “Abbiamo rilevato che in ogni pagnotta è rappresentato il riscaldamento globale, dovuto ai fertilizzanti usati per aumentare il raccolto, dalla energia impiegata per produrli e dal biossido di azoto liberato da un terreno deteriorato da un uso eccessivo di fertilizzanti”.
Fonte: www.improntaunika.it
La maggior parte delle emissioni legate alla nostra alimentazione dipendono dalla nostra personale scelta di rinunciare o meno alla carne.
I ruminanti (bovini e ovini) producono metano come effetto secondario dei propri processi digestivi e lo rilasciano in atmosfera in virtù di tali processi o con le esalazioni derivanti dal loro letame in decomposizione.
Se considerate che solo gli animali allevati negli Stati Uniti producono 500 milioni di tonnellate di letame ogni anno, ossia 3 volte la quantità di rifiuti prodotti dalla popolazione statunitense nello stesso arco di tempo, inizierete a farvi un’idea di cosa significhi per l’ambiente il nostro insaziabile appetito per la carne.
Facciamo presente che stiamo parlando di un unico gas nocivo e solamente del suo effetto in atmosfera. Ma il letame che si decompone, parlando di quantità così grosse, va a contaminare anche le nostre falde acquifere.
Fonte: animalequality.it
La distribuzione del prodotto finito ha il maggior contributo sia nelle emissioni di gas serra (55%) che nella richiesta globale di energia primaria (53%), poiché nel presente studio la maggior parte del prodotto viene distribuito via aerea verso destinazioni intercontinentali. In termini di emissioni di gas serra, la coltivazione dell’oliveto impatta per il 18% sul totale; tale percentuale è attribuibile per il 46% dalle operazioni di fertilizzazione, in particolare dalle emissioni di protossido di azoto dal suolo derivanti dall’impiego di fertilizzante azotato; per il 21% dalle operazioni di raccolta.
Possibili interventi migliorativi consistono nell’effettuare la distribuzione intercontinentale via mare, utilizzare biodiesel da olio esausto per le operazioni agricole, optare per un packaging più leggero, impiegare fertilizzanti azotati a lento rilascio.
Fonte: www.teatronaturale.it.